sabato 10 ottobre 2020

Ma è proprio necessario introdurre nelle scuole l’educazione digitale?

 

Ma è proprio necessario introdurre nelle scuole l’educazione digitale?

10 Ottobre 2020

di Umberto Galimberti

Articolo tratto da "La Repubblica" del 10/10/2020

Dissento fortemente dalla proposta di Paola Pisano, Ministro dell’Innovazione Tecnologica e della Digitalizzazione, di inserire nei programmi didattici una nuova materia per promuovere competenze digitali. Le motivazioni: “solo il 22% degli italiani tra il 16 e i 74 anni ha competenze digitali superiori a quelle di base”. Il dato non è affatto significativo: ci si doveva chiedere quale fosse la percentuale con competenze digitali superiori a quelle di base tra i 6 e i 26 anni di età, che è poi l’età scolare, dove si troverebbe una percentuale decisamente più elevata.
Continua la Ministra per avvalorare la sua tesi: solo un esile 1% dei laureati ha conseguito una laurea in Tic (Tecnologia dell’Informazione e della Comunicazione) quando, secondo l’Osservatorio delle competenze digitali, ne sarebbero serviti 15mila in più. La soluzione è molto semplice: si elimini il numero programmato o si riducano le tasse universitarie in quei corsi di laurea. E a quali materie togliamo ore per inserirne un’altra di dubbia necessità? Si preferirà una materia che insegna “la storia dell’innovazione” a una che già esiste che insegna la Storia, una materia che insegna “il diritto nei canali digitali” a una che già esiste che insegna il Diritto, una materia che insegna “l’utilizzo dei big data” a una materia che già esiste, la matematica, che insegna a gestire la complessità.

È chiaro che a voi ministri dell’Innovazione Tecnologica e della Digitalizzazione non ci si può rivolgere per pensare e attuare una rivoluzione sensata per la scuola. Altro che digitalizzazione: ci vuole la scuola che, come quella di una volta, insegnava a fare riassunti, insegnava le tabelline, insegnava la storia, una scuola capace di bocciare, rimandare e promuovere per merito, una scuola che non produceva disgrafici perché faceva l’esercizio del dettato, non produceva dislessici perché faceva l’esercizio della lettura, una scuola che tentava di reinserire quelli che oggi vengono chiamati BES, anziché abbandonarli alla loro condizione di presunta inferiorità, una scuola che insegnava a pensare.
Silvia Bastia
silviabastia17@gmail.com

Pur tagliandola, perché avrebbe occupato da sola l’intera pagina, le ho lasciato anche gran parte dello spazio della mia risposta perché condivido tutto della sua lettera, a partire dalla mia persuasione che compito della scuola fino a 18 anni è avere come ob­biettivo la formazione dell’uomo prima delle sue competenze, comprese quelle digitali che gli studenti già conoscono meglio dei loro professori. Ma la scuola italiana non è mai stata pensata per l’educazione dei giovani, ma fondamentalmente come creazione di posti di occupazione per insegnanti, senza preoccuparsi se, oltre alla loro preparazione non sempre garantita, gli insegnanti avessero una vera motivazione e predisposizione a questa professione, fossero davvero capaci di comunicare, di interessare, di affascinare, cosa che è facilmente verificabile con un test di personalità. E inoltre, avessero conoscenze approfondite di psicologia dell’età evolutiva, dal momento che hanno a che fare con ragazzi che si trovano in quella stagione incerta della loro vita che si chiama adolescenza. Qui passa la differenza tra “istruzione”, che è pura trasmissione di contenuti culturali, ed “educazione” che si prende cura delle differenze di intelligenza di ciascuno studente e delle vicissitudini emotivo-sentimentali che inquietano il loro cuore. Già Platone avvertiva che la mente non si apre se prima non si è aperto il cuore.

Ma per questo è necessario avere classi di 12 o 15 studenti e non di 30 per risparmiare stipendi. E proprio approfittando della pandemia che ci ha colpito potremmo rendere definitiva e strutturale la riduzione delle presenze in classe, mentre si sentono proposte di approfittare dell’esperienza, per altro disastrosa, dell’insegnamento a distanza per rendere questa modalità, se non proprio strutturale, quasi. Con questo tipo di proposte sempre più tecnologiche e sempre meno culturali, possiamo ancora avere qualche speranza per un rinnovamento radicale della nostra scuola? Io non ne ho più. Per quanto riguarda i problemi da lei sollevati nella seconda parte della sua lettera risponderò nel prossimo numero.