In
occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Don Lorenzo Milani (26
giugno 1967), onorare la sua figura non solo è giusto ma doveroso per tutti gli
insegnanti che si riconoscono nei suoi valori morali e principi educativi.
A
metà del secolo scorso il priore di Barbiana denunciava con coraggio evangelico
la protervia della gerarchia ecclesiastica e la scuola pubblica incapace di
accogliere alunni bisognosi d’aiuto, ma aperta e ospitale per i più abbienti e
capaci. La verità gridata gli procurò nel 1954 l’ostracismo nello sperduto villaggio
di Barbiana, località montana di 39 anime dimenticata da Dio e dagli uomini. Le
sue spoglie riposano oggi nel piccolo cimitero del paese dove la sua figura si elevò
a guida spirituale e pedagogica di tutti quei docenti italiani che riconoscono
in lui il difensore intransigente dei più deboli ed emarginati.
Nello
scritto poco conosciuto “L’obbedienza non
è più una virtù”, Don Milani metteva in guardia dal pericolo dell’accondiscendenza
incondizionata, nemico della democrazia e ostacolo alla realizzazione della libertà
di coscienza schiacciata anni prima dallo slogan fascista: “Credere, obbedire e combattere!”. Purtroppo
questo pericolo pervade ancor oggi la nostra società della conoscenza. L’obbedienza
acritica imprigiona gli animi e le menti, ne governa i comportamenti e le libere
decisioni minando alla base il principio democratico della responsabilità personale,
già evidenziato nell’Ottocento dal saggio di Carlo Cattaneo “Psicologia delle menti associate”. La
bieca obbedienza obnubila le coscienze, crea servitori schiavi del potere e
incatena il progresso democratico e civile della società.
Anche
nella scuola si realizza una democrazia più di facciata che di sostanza. Gli
insegnanti manifestano spesso una pusillanime riverenza verso le autorità preposte,
accettano spesso le scelte fatte da altri per ragioni di opportunismo o di quieto
vivere. Così facendo rinunciano alle proprie idee per abbracciare in modo acritico
quelle del capo di turno.
Nel
“Libro degli abbracci” Eduardo Galeano così racconta:
“In una caserma di Siviglia, al centro del
cortile, c'era una panchina. Vicino alla panchina stava sempre un soldato a
montare la guardia. Nessuno sapeva perché si facesse la guardia alla panchina.
Si faceva perché si faceva, e basta: giorno e notte, tutti i giorni e tutte le
notti. L'ordine degli ufficiali si trasmetteva di generazione in generazione e
i soldati obbedivano. A nessuno venne mai un dubbio, mai una domanda. Se si
faceva così, come si era sempre fatto, un motivo doveva pur esserci.
E la faccenda continuò finché a qualcuno, forse un generale o un colonnello, venne in mente di andare a vedere qual era l'ordine originario. Ci fu da mettere sottosopra gli archivi, ma a forza di rimestare le carte, alla fine si venne a sapere.
E la faccenda continuò finché a qualcuno, forse un generale o un colonnello, venne in mente di andare a vedere qual era l'ordine originario. Ci fu da mettere sottosopra gli archivi, ma a forza di rimestare le carte, alla fine si venne a sapere.
Facevano trentun anni,
due mesi e quattro giorni da quando un ufficiale aveva piazzato un soldato di
guardia alla panchina perché a nessuno capitasse di mettersi a sedere sulla vernice
fresca…”
I
docenti che come bravi soldati obbediscono e presidiano senza discutere le “panchine
vuote” della scuola rinunciano di fatto ai propri ideali, abdicano alla loro nobile missione di educatori, si
comportano in modo contrario agli insegnamenti di Don Lorenzo Milani che
gridava ai quattro venti che… l’obbedienza non è più una virtù!
“La mia patria sono i poveri, la vostra è solo una scusa” (Don Lorenzo Milani)
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